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La storia della tragica estate 2015 dei campi pugliesi si arricchisce di un nuovo capitolo. Le tracce delle indagini avviate dopo la morte di Abdullah Muhamed, il 47enne E' morto raccogliendo pomodori sotto il sole cocente, mentre nelle campagne salentine di Nardò il termometro segnava 40 gradi. Quel 20 luglio del 2015 Abdullah Muhamed, sudanese di 47 anni, lavorava senza un cappello, senza una bottiglietta d'acqua, lontano da ogni presidio medico d'emergenza, senza lo straccio di un contratto. Adesso la Procura di Lecce chiama a rispondere per la sua morte un imprenditore salentino e il caporale (anch'egli sudanese) per cui lavorava
Caporalato e omicidio colposo sono le accuse che la pm di Lecce Paola Guglielmi ha scritto nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari accanto ai nomi di Mohamed Elsalih, detto Sale, e Giuseppe Mariano, detto Pippi. Quest’ultimo in qualità di datore di lavoro e titolare di fatto dell’azienda intestata alla moglie Rita De Rubertis; il sudanese perché preposto dal datore di lavoro e responsabile dei campi. Per la Procura di Lecce i braccianti di quell’azienda «erano sottoposti a ritmi sfiancanti di 10-12 ore al giorno di lavoro, spesso in nero, in condizioni atmosferiche e climatiche usuranti, senza il riposo settimanale e le pause». Ovviamente sottopagati, con compensi «di gran lunga inferiori rispetto a quelli previsti dai contratti»: 50 euro al giorno, dai quali bisognava sottrarre i costi per il trasporto in campagna e quelli per cibo e acqua da acquistare dai caporali. Condizioni che, unite a «negligenza, imprudenza, imperizia, inosservanza delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro da parte di Mariano ed Elsalih – si legge nelle accuse della Procura – hanno cagionato la morte di Abdullah». Le indagini hanno appurato che quei pomodori raccolti dal bracciante sudanese sono finiti nelle bottiglie e nei barattoli di Mutti e Cirio. «Ma le aziende – spiega la pm Guglielmi – non hanno alcuna responsabilità penale, altrimenti le avrei indagate: fanno parte delle indagini che prevedevano l’accertamento dell’intero percorso del prodotto»
«Conserve Italia – spiega il presidente del consorzio cooperativo che tra i suoi marchi annovera Cirio – nei contratti di acquisto prevede una serie di obblighi a cui i fornitori sono tenuti. Tra questi l’osservanza delle normative sulla sicurezza sul lavoro e in materia di immigrati. Inoltre, Conserve Italia applica il prezzo quadro regionale per cui il produttore non può dire di essere costretto a tagliare il costo del lavoro perché strozzato da prezzi bassi. I tragici fatti del 2015 dimostrano che De Rubertis non rispettava le condizioni, pur avendo firmato il contratto. Noi non possiamo sostituirci all’attività di controllo degli ispettori dell’Inps, della Guardia di Finanza e dei Carabinieri. Avere il Durc in regola non basta, dal momento che se hai lavoratori in nero non risultano». Servono, quindi, più controlli. Anche secondo Mutti, che al pari di Conserve Italia ha subito interrotto i contatti con Mariano quando è emersa l’ipotesi di caporalato. «Lo stabilimento di Oliveto Citra – spiega l’amministratore delegato del gruppo, Francesco Mutti – lo abbiamo acquisito nel 2016, prima eravamo in affitto. Abbiamo subito chiesto che la raccolta avvenisse meccanicamente, ora siamo all’85% al Sud mentre al Nord siamo al 100% da decenni. Noi paghiamo la materia prima anche più del prezzo quadro regionale: il vero problema è a livello di sistema, servono più controlli delle forze dell’ordine». Per Yvan Sagnet – il bracciante che nel 2011 capeggiò la rivolta degli sfruttati proprio a Nardò e oggi è presidente dell’associazione No Cap che, appunto, dice no al caporalato – «i contratti che le aziende fanno firmare non sono garanzia che il prodotto sia etico. Per questo vogliamo un tavolo in cui si possa discutere dell’eticità della filiera, a cui partecipi il ministro Martina a cui chiederemo, appunto, una legge sulla certificazione etica».
Cos'è il caporalato?
Secondo la Flai Cgil sarebbero almeno 400 mila in tutta Italia questi lavoratori “a nero”, quindi invisibili per la legge, che però assicurano preziosa manodopera (per lo più alla criminalità) con paghe da fame. La loro emersione è quasi sempre casuale, legata ad eventi tragici, come alle morti per infarto o ad incidenti stradali di pulmini dove i lavoratori vengono stipati all’inverosimile.
Tra la generica “illegalità”, rientrano, i mancati versamenti dei contributi previdenziali, assieme allo strutturato fenomeno del “caporalato”, cioè il vero e proprio schiavismo in agricoltura. E’ un mondo del lavoro fatto di arbitrarietà e di soprusi, più diffuso di quanto si creda. Se il Sud con Puglia in testa, ne è l’emblema, nel Nord è in piena diffusione.
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Il territorio agricolo pugliese è la terra dei diritti negati e violati, una situazione che si ripresenta soprattutto in estate durante la raccolta di pomodori, uva, cocomeri e ortaggi. È impressionante in questa Regione la quota femminile di sfruttamento: il rapporto tra donne e uomini è addirittura di 3 a 1. Vengono pagate 3-4 euro l’ora e costrette a turni massacranti di 12 ore.
Più del 60% dei nuovi schiavi costretti a lavorare sotto caporale non ha accesso ai servizi igienici e all’acqua corrente. Venticinque euro la paga media per 15 ore continuative di lavoro. Poi ci sono i taglieggiamenti da parte da parte degli stessi caporali, che spesso negano i pagamenti, aggrediscono e derubano i lavoratori, e impongono il pagamento dei consumi e di tutti i trasporti. «Un mercato infame, che va a riempire le tasche delle agromafie
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In Puglia chi lavora nei campi spesso è costretto a sottostare alla “legge” dei caporali. Sfruttamento e illegalità fanno parte ancora oggi di un sommerso dove non c’è rispetto e dignità per le persone, soprattutto donne e migranti, che operano in condizioni al limite dello stremo
Le aziende trattano direttamente con i caporali il prezzo della manodopera e le donne vengono caricate su dei pullmini prima che sorga il sole, per arrivare nei campi anche fuori regione – racconta Cosimo che da più di cinquant'anni è nel sindacato e conosce la sua terra attraverso le storie dei lavoratori – spesso si addormentano e quando scendono i gradini del pullmino non sanno neppure dove sono."Uno o due euro per ogni cassetta di pomodori, che vuol dire ore con la schiena piegata sotto il sole a picco. Così il sole della Puglia, per molti sinonimo di una vacanza ben riuscita, per altri si trasforma in una condanna quotidiana. Si è parlato soprattutto dei tre braccianti morti in Puglia, tra cui una donna italiana, ma nella conta ddecessii del 2015 ci sono anche un rumeno di 50 anni deceduto in Veneto durante la raccolta delle mele e Andrea, un sessantenne impegnato nella ristrutturazione di un'abitazione nella provincia patavina. Un'emergenza che non parla solo del sud, ma che riguarda tutto il territorio nazionale, che coinvolge gli stranieri come gli italiani che soprattutto al sud si arrangiano come possono.
Paola Clemente fu stroncata da un infarto mentre lavorava all'acinellatura dell'uva: il cadavere riesumato dopo un'inchiesta di Repubblica. In carcere il titolare dell'azienda che trasportava in bus le braccianti e il responsabile dell'agenzia interinale.
Fu un infarto a ucciderla, ma la morte di Paola Clemente, la bracciante agricola 49enne di San Giorgio Jonico scomparsa mentre lavorava all'acinellatura dell'uva sotto un tendone nelle campagne di Andria il 13 luglio del 2015, non è stata vana' linchiesta, aperta all'indomani della denuncia da parte del marito e della Cgil, è arrivata a una svolta. Sei persone sono state arrestate nel corso di un operazione della guardia di finanza e della polizia coordinate dal magistrato tranese Alessandro Pesce. Truffa ai danni dello Stato, illecita intermediazione, sfruttamento del lavoro: la nuova legge contro il caporalato non ha fatto sconti. Se fosse entrata in vigore prima, probabilmente il numero delle persone in manette sarebbe stato più alto
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Sezione I
Dei delitti contro la personalità individuale
600. Riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù
Chiunque esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà ovvero chiunque riduce o mantiene una persona in uno stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all'accattonaggio o comunque a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento, è punito con la reclusione da otto a venti anni.
La riduzione o il mantenimento nello stato di soggezione ha luogo quando la condotta è attuata mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona.
La pena è aumentata da un terzo alla metà se i fatti di cui al primo comma sono commessi in danno di minore degli anni diciotto o sono diretti allo sfruttamento della prostituzione o al fine di sottoporre la persona offesa al prelievo di organi (1).