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L'infinito
Alfredo Giannella
Giovanni Mastrogiacomo
Angelo Petrillo
Alessandro Piano
Andrea Ripa
Ciro Spiniello
Fa parte dei Canti (n. 11)
Data di ideazione: 1819 circa
Data di composizione: 1829 - 1831
I rimpianti della giovinezza
Canzone libera di 3 strofe formate da endecasillabi e settenari liberi
A SE STESSO
Leopardi esprime tutto il suo dolore che la passione gli ha procurato. Emerge il suo stato di sconforto e di disperazione,il poeta si chiude in se stesso e prende atto dell’insensatezza delle cose e inizia a disprezzare se stesso ed il mondo. La potenza del canto è sprigionata dalla tristezza che pervade tutto il componimento grazie anche all’utilizzo di versi brevi e spezzati. C’è una bellezza negativa che possiamo evidenziare nel canto, che è accentuata dalla malinconia del poeta che agisce come velo e ci offusca la vista in modo da intravedere soltanto questa bellezza negativa ma non riuscire a coglierla appieno
Il "Canto notturno di un pastore errante dell'Asia" è l'ultimo canto pisano-recanatese a essere composto e inserito nei "Canti".
Il canto mediante il monologo di un pastore nomade approfondisce la meditazione Leopardiana sull'essenza della vita umana
Il Canto notturno di un pastore errante dell'Asia è una canzone libera di 143 versi suddivisi in 6 stanze
"Dimmi:ove tende questo vagar mio breve, il tuo corso immortale?"
Il pastore rivolge domande esistenziali alla luna (natura), la quale non risponde, lasciando al pastore il compito di darsi una rsipsota alle proprie domande, dimostrando così la solitudine cui si trova l'uomo nel mondo
Contenuto nei Canti, L'infinito è un idillio composto da endecasillabi sciolti nel quale Leopardi esplora il tempo e l'indefinito, cercando di cogliere l'infinito con il proprio pensiero.
Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare
La siepe, che simboleggia il punto di divisione tra il finito e l'infinito, tra il tempo vissuto e il futuro, può essere superata solo attraverso l'immaginazione, che è l'unico mezzo capace di cogliere l'infinito e perdersene all'interno, provocando un senso di curiosità e di sgomento.
Ricerca dell'infinito
Leopardi descrive un'esperienza personale di contemplare l'infinito, ma allo stesso tempo sentirsi oppresso dalla propria limitatezza
come individuo. Questo porta il suo pensiero a ''distaccarsi" dal corpo per andare oltre il finito e immaginare l'infinito che però non può comprendere fino in fondo.
Si tratta di una poesia composta da 107 endecasillabi, scritta nel 1821. Essa si trova strettamente legata alla tematica del solipsismo nella concezione di natura come rifugio dalla realtà che lo circonda
IN QUESTA POESIA ,LEOPARDI RICONOSCE ALLA NATURA IL MERITO DI MADRE CHE OFFRE AL PROPRIO FIGLIO UN LUOGO DI RIPOSO SICURO PER SFUGGIRE AL CAOS DELLA CIVILTA, E DUNQUE,ANCHE UN BARLUME DI FELICITA
LEOPARDI DESCRIVE COME,RIMEMBRANDO AVVENIMENTI PASSATI GIOIOSI O DOLOROSI CHE SIANO ,RIESCE A SCAPPARE DALLA REALTà RAGGIUNGENDO UNA DIMENSIONE METAFISICA IN CUI SI è IN PIENO CONTATTO COL PROPRIO IO E CON I PROPRI SENTIMENTI PIU RECONDITI
Talor m’assido in solitaria parte,
sovra un rialto, al margine d’un lago
di taciturne piante incoronato.
Ivi, quando il meriggio in ciel si volve,
la sua tranquilla imago il Sol dipinge,
ed erba o foglia non si crolla al vento,
e non onda incresparsi, e non cicala
strider, né batter penna augello in ramo,
né farfalla ronzar, né voce o moto
da presso né da lunge odi né vedi.
Tien quelle rive altissima quiete;
ond’io quasi me stesso e il mondo obblio
sedendo immoto; e già mi par che sciolte
giaccian le membra mie, né spirto o senso
piú le commova, e lor quiete antica
co’ silenzi del loco si confonda.
Il solipsismo può essere inquadrato secondo diverse sfumature. La più radicale è quella del cosiddetto “solipsismo metafisico”, in base al quale l'individuo è l'unica realtà esistente mentre il mondo esterno e gli altri sono solo sue rappresentazioni e non hanno esistenza indipendente.
Poi vi è il “solipsismo epistemologico”, secondo il quale solo i contenuti mentali della mente solipsista possono essere conosciuti mentre l'esistenza del resto non è ritenuta conoscenza falsa ma viene messa in discussione. Infine, secondo il “solipsismo metodologico”, l'io individuale e i suoi sentimenti sono il punto di partenza di ogni costruzione filosofica.
Attraverso la formula “cogito ergo sum”, Cartesio intende affermare l'assoluta certezza dell'esistenza dell'individuo, che si basa sulla capacità individuale di pensare e dubitare. Il dubbio metodico cartesiano si basa sul fatto che ogni contenuto della conoscenza deve essere sottoposto a dubbio . Dal momento che solo l'io esiste con certezza, la realtà esterna potrebbe anche essere il frutto dell'azione di un genio maligno. Questo è il dubbio iperbolico cartesiano che è un'estremizzazione di quello metodico. Per Cartesio solo la parte pensante dell'io (“res cogitans”) è data come esistente per certo, ma non il corpo fisico, perché quest'ultimo essendo materiale è parte della “res extensa”. Su queste basi, il corpo esiste solo in quanto idea prodotta nella mente dell'individuo ma non ha una sua esistenza indipendente.
Quanto alle filosofie orientali, dottrine assimilabili al solipsismo si possono riscontrare nei testi religiosi indiani Brihadaranyaka Upanishad della filosofia hindu, che risalgono al primo millennio a. C. Gli Upanishad sostenevano che la mente fosse l'unico Dio e che tutte le azioni dell'universo non fossero altro che il risultato della mente che assume forme infinite. Secondo la corrente della filosofia hindu “Advaita Vedanta” , tutto ciò che esiste è nient'altro che il sé. Tuttavia, anche se tale posizione potrebbe rinviare al solipsismo occidentale, in realtà essa va collocata nel contesto teologico del “transumano” che ci impedisce di affibbiare alla corrente Advaita Vedanta l'etichetta del solipsismo. Analogamente, nel Buddismo la posizione secondo la quale la realtà è pura illusione è stata erroneamente accostata al solipsismo. In realtà, secondo la filosofia buddista, la mente e i fenomeni esterni sono parimenti transeunti e derivano l'uno dall'altro. L'una non può esistere senza gli altri : questa forma di interdipendenza è nota come “pratityasamutpada”.