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Guerra delle due Rose fu quello strappo dinastico che insanguinò l’Inghilterra da 1455 al 1485, impegnando due diversi rami della dinastia regnante dei Plantageneti: i Lancaster e gli York, i cui rispettivi stemmi erano simboleggiati da una rosa rossa e da una rosa bianca ed i cui rispettivi capostipiti furono i fratelli Giovanni di Gaunt ed Edmondo di Langley quartogenito e quintogenito di Edoardo III.
Chi erano i contendenti della guerra delle due rose?
Come si concluse la guerra delle due rose?
Chi ha vinto la guerra delle due rose?
Dove si svolse la battaglia finale della guerra delle due rose?
Rappresentazione di una scena dell'Enrico VI, parte I, dove i partigiani delle fazioni rivali, nella chiesa del Tempio, scelgono tra le rose rosse e le rose bianche
Edoardo III d'Inghilterra (1312-1377) ebbe sei figli maschi; quattro di questi (anche a causa della politica matrimoniale del padre, che li fece sposare con figlie di ricche famiglie nobili, dando così vita a potenti casati tutti in grado di rivendicare la corona) concorsero con la loro discendenza a dare vita al conflitto. Essi furono:
1 - Edoardo di Woodstock, principe del Galles (1330-1376).
Primogenito di Edoardo III, passò alla storia col soprannome di Principe Nero. Morì un anno prima del padre.
Riccardo II d'Inghilterra (1367-1400).
Figlio secondogenito di Edoardo di Woodstock e quindi nipote di Edoardo III, divenne erede al trono in seguito alla morte in tenera età del fratello maggiore e a quella del padre. Successe al nonno nel 1377.
2 - Lionello di Anversa, primo duca di Clarence (1338-1368)
Terzogenito maschio di Edoardo III (il secondo nato era morto in culla).
Figlia di Lionello, sposò Edmondo Mortimer, terzo conte di March (1351-1381)
Figlio della precedente ed erede al trono d'Inghilterra, erede designato di Riccardo II
Figlio del precedente ed erede al trono d'Inghilterra, erede designato di Riccardo II, spogliato dei titoli e feudi da Enrico IV e riabilitato da Enrico V, morì senza eredi
Figlia di Ruggero Mortimer, sposò Riccardo di Conisburgh, terzo conte di Cambridge (1375-1415).
3 - Giovanni di Gand (Gaunt), primo duca di Lancaster (1340-1399)
Quartogenito maschio di Edoardo III e capostipite del ramo Lancaster
Figlio del precedente
Figlio del precedente
Figlio del precedente
Fratellastro minore legittimato di Enrico IV.
Terzogenito del precedente.
Figlia del precedente, moglie di sir Edmondo Tudor e madre di Enrico VII d'Inghilterra.
4 - Edmondo di Langley, primo duca di York (1341-1402)
Quintogenito maschio di Edoardo III e capostipite del ramo York.
Figlio (maschio secondogenito) del precedente. Sposò la cugina Anna Mortimer
Figlio del precedente e di Anna Mortimer fu pretendente al trono d'Inghilterra in quanto erede dei titoli dello zio, Edmondo Mortimer
Figlio del precedente
Figlio del precedente
Fratello minore di Edoardo IV
5 - Thomas di Woodstock, primo duca di Gloucester (1355-1397), sestogenito maschio e ultimo figlio di Edoardo III, assassinato o giustiziato per tradimento su ordine di Riccardo II.
Prima fase della Guerra: il ritorno e l'ascesa degli York
Nel 1453 la salute mentale del re, che aveva da poco superato i 30 anni, peggiorò improvvisamente. Da quel momento il re, che soffriva di amnesie, catalessi e allucinazioni, alternerà fasi di coscienza a fasi di totale incapacità. Una potente lega di baroni comandata dal duca di Warwick, nipote del re, approfittò della situazione per nominare Riccardo di York Protettore d’Inghilterra, imprigionando il principale consigliere del re, il duca di Somerset, nella Torre di Londra.
Nel frattempo però era nato Edoardo di Lancaster, figlio del re, che metteva seriamente in dubbio il diritto al trono di Riccardo. Quando Enrico VI si riprese improvvisamente, nel 1455, Riccardo di York venne allontanato dal trono.
William Dyce, Re Enrico VI di Inghilterra a Towton, dipinto, 1860
«Fu un uomo dalla mente pura fino all'eccesso. Non fece nessuna promessa che non poté poi mantenere, né consciamente recò torto a qualcuno. La rettitudine e la giustizia guidavano la sua condotta di vita in tutti gli affari pubblici. Devoto, egli cercava di instillare nel prossimo l'amore per la religione [...] Era liberale verso i poveri, e viveva tra i suoi servi come un padre tra i suoi figli. Prontamente, perdonava coloro i quali gli avevano recato offesa.»
Nell'ultimo decennio del XVI secolo, William Shakespeare scrisse una trilogia teatrale sulla vita di Enrico VI: Enrico VI, parte I, Enrico VI, parte II e Enrico VI, parte III[4]. Ricostruita esattamente dal punto di vista storico, il dramma espone la personalità di Enrico VI indagandone a fondo l'animo tormentato, complessato, proteso a trovare quella pace che il destino non gli ha potuto donare, come il drammaturgo inglese espose drammaticamente in questo monologo:
La morte di Enrico VI, illustrazione tratta dall'Enrico VI dell'edizione del Shakespeare's Complete Works di Nicholas Rowe (1709).
Seconda fase della Guerra
Un'altra storia
Tra quelli che la sorte della guerra preferiscono deciderla in salotto piuttosto che sul campo di battaglia, invece, c’è Francesco Coppini, potente ecclesiastico italiano.
Coppini è nato a Prato e ha iniziato la carriera ecclesiastica a Firenze. Nel 1447 è stato inviato come commissario apostolico a San Gemini per difendere la cittadina dagli attacchi di Todi e nel 1455 è tornato per risolvere la diatriba sulla gestione del lebbrosario comunale. La confidenza che ha preso con l’Umbria gli è valsa, nel 1457, la nomina a vescovo di Terni al posto di Ludovico Mazzancolli. Il suo potere in Vaticano è tanto che nel 1458, alla morte di Callisto II, il nuovo papa Pio II, per incontrarlo, aveva deciso di aggiungere una tappa al suo viaggio verso Mantova. La città era stata scelta come sede di un congresso di sovrani cristiani per organizzare la crociata contro i turchi. Pio II riteneva che Coppini potesse diventare un eccezionale diplomatico e lo aveva incaricato di una missione alle corti di Francia, Inghilterra e Fiandra affinché questi regni cessassero di combattersi tra loro e dirottassero le loro energie contro i musulmani.
Il vescovo, però, aveva interpretato in modo molto personale l’incarico, agendo da principe di rango. In Fiandra aveva concentrato la sua attenzione sui beni artistici: si era fatto consegnare da Nicolas Froment il trittico La Resurrezione di Lazzaro e ne aveva fatto dono a Cosimo dei Medici. Quando poi il papa lo aveva inviato ambasciatore in Gran Bretagna si era gettato mani e piedi nel conflitto tra York e Lancaster, esploso nel 1455 per ragioni dinastiche.
Intanto in Gran Bretagna era arrivato, come ambasciatore, il vescovo Francesco Coppini, che aveva subito aperto i negoziati con Enrico VI; o meglio con la moglie Margherita. Negoziati che più che a un accordo politico avevano puntato ad un approccio carnale; la Regina, però, non aveva nessun intenzione di concedere il suo corpo in cambio di una benedizione e così Francesco – rifiutato e umiliato – era passato all’altra rosa, parteggiando apertamente per Edoardo di York e arrivando persino a scomunicare il re in carica.
Con l’appoggio di Santa Madre Chiesa, dunque, Enrico era stato ancora catturato e deposto, mentre Edoardo era stato incoronato nuovo Re d’Inghilterra. La riscossa dei Lancaster non si era fatta attendere: Margherita aveva guidato la liberazione di Enrico, Edoardo aveva subito reagito e aveva portato i due eserciti a scontrarsi per l’ennesima volta, prima a Ferrybridge e poi in un altopiano tra i villaggi di Towton e Saxton, nello Yorkshire.
Con il trionfo degli York, il vescovo Coppini diventa una celebrità in Inghilterra ma finisce per attirarsi l’inimicizia del re di Francia Luigi XI, che protesterà presso Pio II per l’intraprendenza del suo legato. Il papa, da parte sua, risponderà di non essere informato dei fatti. Ma richiamerà in Italia il vescovo di Terni e lo farà rinchiudere a Castel Sant’Angelo. Francesco verrà processato: confesserà di aver compiuto atti di simonia e di aver concesso ordini sacri, indulgenze e assoluzioni in cambio di denaro.
Destituito dalla carica e privato del sacerdozio, l’ex vescovo passerà i suoi ultimi anni nel monastero di San Paolo fuori del mura di Roma. Assumerà il nome di Ignazio e concluderà nel digiuno e nella penitenza la sua gloriosa e spregiudicata carriera.
TOWTON 25
Quarta fase della Guerra: gli York subiscono vicende alterne
● Nell’ottobre del 1470 riesce a reinsediare sul trono Enrico VI
● Il 14 aprile del 1471, con l’appoggio del ducato di Borgogna, Edoardo IV sconfigge i Lancaster presso Barnet. Warwick viene ucciso
● Il 4 maggio, a Tewksbury, trova la morte anche Edoardo di Lancaster. Enrico VI morirà a breve, Margherita tornerà in Francia.
● Edoardo IV muore nel 1483
Terza fase della Guerra: la vittoria degli York
● Il 2 febbraio 1461 Suo figlio Edoardo sconfigge i Lancaster presso Mortimer’s Cross
● Il 4 marzo il parlamento inglese incorona Edoardo IV. Enrico VI viene deposto
● Il 29 marzo del 1461, presso Towton, i Lancaster vengono praticamente annientati
● Nel 1469 Warwick, cacciato, si rifugia in Francia e passa dalla parte dei Lancaster
Quinta fase della Guerra: la sconfitta degli York e l'avvento dei Tudor
● Suo fratello Riccardo di Gloucester nel frattempo aveva sposato Anna di Neville, figlia di Warwick e vedova di Edoardo di Lancaster, riesce a dichiarare illegittimo Edoardo V, e sale al trono come Riccardo III
● I due legittimi eredi vengono rinchiusi nella torre di Londra
● Nell’agosto del 1485 Enrico Tudor, nuovo capo della fazione dei Lancaster, con sconfigge e uccide Riccardo III presso Bosworth con l’appoggio francese
● Enrico VII, primo re Tudor, sposa Elisabetta di York: le due fazioni sono riconciliate
RICCCARDO III : «un cavallo, un cavallo, il mio regno per un cavallo»
Michael A. Hicks scrive
«L'egoismo di Riccardo denota sia un eccezionale ego sia individualismo. Mentre altri magnati pensavano al lungo periodo, cercando di mantenere le proprietà di famiglia e favorire gli interessi delle generazioni future della loro dinastia, Riccardo diede priorità al proprio bene, ai suoi bisogni politici immediati e all'eventuale salvezza della sua anima. Solo secondariamente si occupava degli interessi a lungo termine dei suoi eredi, che furono diseredati dalle sue alienazioni a vantaggio della manomorta (ecclesiastica) e di altri. Se non è possibile dare senso alla carriera di Riccardo duca di Gloucester, è perché i suoi obiettivi erano diversi da quelli degli altri magnati. Sia come duca, sia come sovrano, Riccardo apprezzò che gli eredi rafforzassero la sua posizione, dando continuità al suo mandato, ma egli non riconobbe alcun obbligo di privilegiare i loro ai propri interessi. Uno si chiederebbe se i suoi attaccamenti sentimentali alle case di York e Neville fossero sinceri o semplicemente altre espressioni dell'interesse personale di Riccardo. Certamente, l'usurpazione della corona sacrificò gli interessi dei suoi parenti più stretti a vantaggio dei propri e, in definitiva, ha portato alla distruzione della casa reale cui tutti appartenevano.»
ora l'inverno del nostro scontento
è reso estate gloriosa da questo sole di york,
e tutte le nuvole che incombevano minacciose
sulla nostra casa sono sepolte nel petto profondo
dell'oceano.ora le nostre fonti sono cinte di
ghirlande di vittoria,le nostre armi malconcie appese
come trofei,le nostre aspre sortite mutati in lieti incontri,
le nostre marce tremende in misure deliziose di danza.
la guerra dal volto grifagno ha spianato la fronte corrugata,
e ora,invece di montare destrieri corazzati per atterrire le
anime di nemici impauriti ,saltella agilmente nella camera
di una signora al suono seducente di un liuto.
ma io che non fui fatto per tali svaghi ,
ne fatto per corteggiare uno specchio amoroso;
io che sono di stampo rozzo e manco della maestà d'amore
con la quale pavoneggiarmi davanti a una frivola ninfa
ancheggiante ,io sono privo di ogni bella proporzione,
frodato nei lineamenti dalla natura ingannatrice,
deforme,incompiuto,spedito prima del tempo in questo mondo
che respira,finito a metà,e questa cosi' storpia e brutta
che i cani mi abbaiano quando zoppiccò accanto a loro,
ebbene io ,in questo fiacco e flautato tempo di pace ,
non ho altro piacere con cui passare il tempo se non
quello di spiare la mai ombra nel sole e commentare
la mia deformità.
perciò non potendo fare l'amante
per occupare questi giorni belli ed eloquenti,sono
deciso a dimostrarmi una canaglia e a odiare gli oziosi
piaceri dei nostri tempi.ho teso trappole ,ho scritto
prologhi infidi con profezie da ubriachi ,libelli e
sogni per spingere mio fratello clarence e il rea
odiarsi l'uno contro l'altro mortalmente;
e se re edoardo è giusto e onesto quanto io sono astuto
falso e traditore ,oggi clarence dovrebbe essere imprigionato
grazie a una profezia che dice che g. sarà l'assassino degli
eredi di edoardo.tuffatevi pensieri intorno alla mia anima,ecco clarence.
I principi Edoardo e Riccardo nella Torre, 1483 di Sir John Everett Millais
Il ducato di Milano
Milano già all'inizio del XIII secolo affermò la sua superiorità sugli altri comuni del
nord Italia. Prosperità economica (crocevia delle principali vie commerciali), floride
industrie tessili e metallurgiche e soprattutto l'organizzazione militare garantiva
questa superiorità.Per contrastare lo strapotere dei nobili e dei ricchi mercanti ed
acquisire maggior peso politico una parte del popolo minuto si aggregò tramite
l'associazione chiamata Credenza di Sant'Ambrogio, mentre il popolo più
facoltoso si associò alla Motta (adunanza). Ambedue le associazioni avevano
istituzioni proprie e un proprio esercito e, sebbene all'inizio sembravano ispirate ad
obiettivi comuni, si trovarono ben presto a contendersi il potere, dietro la spinta di
interessi di parte di alcune famiglie.Così si imposero dapprima i guelfi guidati dalla
famiglia Della Torre o Torriani (legati alla Credenza) e poi la famiglia ghibellina dei
Visconti.Questi, arrivati al potere con il vescovo Ottone Visconti, intrapresero poi
una politica espansionistica. Il culmine del loro potere si avrà con Gian Galeazzo
Visconti, che cercherà di creare un unico grande stato nell'Italia centrosettentrionale sia attraverso attacchi a importanti città (Verona, Vicenza, Padova)
che rendendo legittimo il suo potere con l'acquisto del titolo ereditario di Duca di
Milano (dall'imperatore Venceslao). Il ducato divenne principato con la
trasmissibilità del titolo. Gian Galeazzo si orientò alla conquista della Toscana
(conquistando Lucca, Pisa e Siena) e dell'Umbria (Perugia, Spoleto, Assisi). Aveva
posto sotto assedio Firenze quando fu colpito dalla peste e morì. Dopo di lui la
divisione del ducato ai suoi tre figli e la disgregazione del potere
Genova e Venezia
La struttura repubblicana rimase solida solo a Venezia. Ciò fu garantito anche dalla
serrata del Maggior Consiglio, un provvedimento che rese ereditaria la carica dei
membri della maggiore istituzione cittadina (che eleggeva anche il doge), frenando
così le aspirazioni di potere dei nuovi ricchi e affidando effettivamente la guida della
città a una oligarchia (formata da circa trecento famiglie).Intanto era rafforzata la
contesa con Genova. Nel 1298 Venezia era stata sconfitta presso l'isola dalmata di
Curzola ma si era immediatamente ripresa..
Genova invece soffriva per le lotte interne tra alcune potenti famiglie: i Fieschi e i
Grimaldi da parte guelfa, i Doria e gli Spinola da parte ghibellina.Nelle loro contese
coinvolsero forze esterne: i Doria e gli Spinola chiesero aiuto ai Visconti di Milano
(che poi devastarono la città), mentre i Fieschi e i Grimaldi offrirono il titolo di
Signore della città al re di napoli Roberto d'Angiò. Fra il 1318 e il 1334 Genova
cadde sotto il dominio di Napoli.Nel 1339 la città ottenne nuovamente un governo
autonomo sotto la guida di un doge, Simon Boccanegra. Con lui comincia la serie
dei dogi perpetui, cioè eletti a vita, che durerà fino al XVI secolo.Stabilizzata
all'interno, Genova trovò molte difficoltà nella politica estera. Il suo predominio sul
mediterraneo occidentale venne ostacolato da una nuova potenza: il regno di
Aragona. Ne approfittarono i veneziani che si allearono con gli aragonesi. Nel 1377
iniziò la cruenta Guerra di Chioggia, in cui le due città si contendevano le porte
commerciali con l'Oriente. Al loro fianco si schierarono diverse potenze che avevan
conti in sospeso o che volevano approfittare del conflitto per estendere potere ed
influenza commerciale. Inizialmente ebbe la meglio la coalizione anti-veneziana.Ma
nel 1380 la flotta genovese rimase bloccata presso Chioggia e la sconfitta fu
catastrofica.La pace di Torino (1381) lasciava due città profondamente segnate
dalla guerra.
Venezia si riprese con più facilità: oltre alla sua posizione preminente nel
Mediterraneo (Stato da Mar), cercò di espandere il suo domino anche
nell'entroterra (Stato da terra). Conquistò Padova nel 1405 ed estese gradualmente
i suoi confini nella Pianura Padana. La sua attività economica inizio a diversificarsi
aprendo anche all'agricoltura.
Firenze
Firenze è la città che più di ogni altra è riuscita a mantenere le sue istituzioni
comunali.Già dal Duecento era uno dei principali centri manufatturieri di Europa
grazie ai pregiati panni di lana.Il popolo grasso era riuscito in qualche modo a
ridurre il potere magnatizio creando nel 1251 il Comune del Popolo guidato da un
forestiero (capitano del popolo).Roccaforte dei Guelfi in Italia riuscì, grazie
all'amicizia del Papa, ad accrescere il potere dei suoi banchieri (Bardi e Peruzzi) e
tramite una riforma costituzionale venne creato un Priorato delle Arti, formato da
sei magistrati, i priori, che rappresentavano gli interessi delle arti maggiori. I
magnati, intanto, continuavano ad esercitare il potere poiché tramite attività
economiche redditizie si assimilavano ai ricchi borghesi.
Ma ad arginare le loro aspirazioni e prerogative giunsero le iniziative di Giano della
Bella (aristocratico ma favorevole al popolo). Nel 1293, eletto priore, promulgò gli
Ordinamenti di Giustizia, che condizionavano l'accesso ad una carica pubblica
all'iscrizione ad una delle Arti. In questo modo i magnati venivano esclusi da questa
possibilità. Nacque una nuova figura di magistrato, il Gonfaloniere di
Giustizia che controllava la forza pubblica.Giano fu esiliato e i suoi ordinamenti
furono emendati. Si stabilì che poteva avere una carica chi fosse iscritto anche solo
formalmente ad una delle Arti anche senza esercitarla di fatto. (Ecco perché Dante
Alighieri, aristocratico, si iscrisse alla corporazione dei Medici e degli Speziali).
Altre rivalità videro contrapporsi due fazioni guelfe tra loro: da una parte i Neri vicini
alla famiglia dei Donati (per il poter aristocratico); dall'altra i Bianchi attorno alla
famiglia dei Cerchi (con la ricca borghesia cittadina). Intervenne anche il papa,
Bonifacio VIII che appoggiò i Neri imponendo col ruolo di pacificatore e mediatore
Carlo di Valois; questi mandò in esilio i principali esponenti dei Bianchi tra cui lo
stesso Dante. I Neri, successivamente, aprirono le porte alla borghesia. Ma da
sempre erano ignorate le istanze dei lavoratori che non avevano diritto di
appartenere ad una corporazione ma che avrebbero voluto partecipare attivamente
alla vita politica per applicare decisione più giuste ed eque. In particolare, erano i
lavoratori dipendenti e salariati e soprattutto quelli dell'Arte della lana, i Ciompi; si
ribellarono più volte per richiedere l'autorizzazione a costituirsi in corporazione
autonoma. Più imponente fu il "tumulto dei Ciompi" del 1378. I rivoltosi riuscirono
ad imporsi e a dare vita alle tre nuove corporazioni del popolo di Dio (Tintori,
Farsettai, Ciompi). Persino come gonfaloniere di giustizia fu eletto un membro dei
Ciompi. Ma nel giro di due mesi fu tutto cancellato e si impose nuovamente un
governo oligarchico guidato dalla famiglia degli Albizi. In questo periodo Firenze si
rafforzò nelle attività esterne conquistando Pisa e controllando Livorno; ottenne
così uno sbocco diretto sul mar
L'Italia meridionale
Il regno di Napoli, governato dagli Angioini (dal 1266), era lo stato più vasto della
penisola italiana.Gli Angioini erano vassalli dela Santa Sede, paladini del partito
guelfo, una sorta di longa manus della politica pontificia in Italia.Roberto d'Angiò, il
Saggio, si oppose con fermezza alla riscossa ghibellina in Italia e fu anche molto
apprezzato per il suo amore alla cultura che manifesto anche con iniziative alla
corte partenopea.Il suo regno tuttavia soffriva di una debolezza strutturale causata
dallo strapotere dei feudatari e dalle scarse disponibilità finanziarie. A quest'ultimo
problema cercò di ovviare con la richiesta di prestiti a mercanti e banchieri,
soprattutto i fiorentini Bardi e Peruzzi. Quando questi nel 1342 dichiararono
fallimento i problemi aumentarono. Alla morte di Roberto la fragilità della corte
angioina si manifestò nella sua totalità.Al trono rimase per trent'anni la nipote,
Giovanna. Schieratasi durante il grande scisma con il papa di Avignone, Clemente
VII, a cui aveva ceduto per 80.000 fiorini proprio il feudo di Avignone, fu
scomunicata da Urbano VI che favorì un parente di un ramo collaterale degli
Angioini, Carlo III di Durazzo; questi, giunto a Napoli imprigionò e fece uccidere la
regina. Il suo successore, il figlio Ladislao cerco di estendere i domini all'interno
dello Stato pontificio ma morì improvvisamente lasciando il regno alla sorella,
Giovanna II, ultima regnante degli Angiò a Napoli.
In Sicilia il potere degli Aragonesi si era rafforzato. Trascurati gli accordi della Pace
di Caltabellotta che prevedevano il ritorno del regno agli Angioini, gli Aragonesi si
impossessarono definitivamente della Sicilia prima facendosi riconoscere dal
popolo (con Pietro II che attirò così l'interdetto pontificio sull'isola); poi, per
rimediare alle evidenti debolezze politiche ed economiche, con l'associazione della
corona del Regno di Sicilia a quella di Aragona, Questa associazione venne
formalizzata dal re Ferdinando I e la Sicilia fu trasformata in un viceregno.
Dalla metà del XIII secolo il sistema comunale entrò in crisi: le istituzioni si
mostrarono incapaci sia di allargare la propria base politica, sia di far fronte alle
istanze delle classi sociali più umili, consentendo l'ascesa e l'affermarsi dei ceti
borghesi più facoltosi.Il popolo grasso, oltre ad affrontare il popolo minuto, si
trovò a fare i conti anche con i nobili che ancora occupavano importanti ruoli di
magistratura (magnati). In realtà la differenza tra borghesi e magnati era solo
nominale e ben presto si passò dalla lotta di famiglie appartenenti a classi diverse a
quella intestina tra gruppi che avevano uno stesso stile di vita. Non mancarono le
rivolte popolari dei salariati e di coloro che erano esclusi dalle corporazioni... In
alcune città si decise di arginare il problema delle lotte sanguinose tra famiglie
dando ad una sola persona (Signore) il potere assoluto fino alla fine delle
discordie.Il Signore quindi poteva arrivare al potere o con un consenso generale o
con un atto di forza.Nacquero così le prime Signorie che a partire dagli Estensi che
si affermarono nella Ferrara del XIII secolo per poi estendere il loro potere in altre
città, conobbero una crescita esponenziale in numerose città dell'Italia centrosettentrionale ed entrarono molte volte in guerra fra di loro quando crebbe la loro ambizione espansionistica
Lo Stato della Chiesa
L'inizio del Trecento vede lo Stato pontificio in una situazione molto tormentata. Nel
1309 la sede pontificia viene trasferita ad Avignone. Roma cade nelle mani delle
principali famiglie aristocratiche della città. Inoltre l'Urbe viene investita da una
grave crisi economica dovuta all'assenza dei funzionari pontifici e alla drastica
riduzione del numero dei pellegrini.Il popolo, per fermare le prepotenze nobiliari,
invia un'ambasceria ad Avignone per chiedere al Papa l'autorizzazione ad
instaurare un governo repubblicano. La delegazione ottenne successo anche per la
partecipazione di un giovane notaio, abile oratore, Cola di Rienzo. A capo di una
rivolta, nel 1347 Cola istituì la Repubblica romana. Suo obiettivo era fare di Roma
la potente città dell'antichità radunando tutte le altre città italiane sotto la sua guida.
Ma appena si alleò con altri stati italiani perse il favore del Papa. Anche il popolo lo
abbandonò a causa della sua politica arbitraria e dispotica. Costretto ad andare via
da Roma alla fine dello stesso anno, ritornerà nel 1354 ma sarà ucciso durante
una rivolta.
Papa Innocenzo VI aveva intanto mandato a Roma il Cardinale Egidio
Albornoz che sarà in grado di ricondurre alla fedeltà al pontefice molte famiglie
romane e a dare inizio ad una importante riforma attraverso le Costituzioni
egidiane. Il frammentato patrimonio di San Pietro tornò ad essere uno stato
centralizzato ed al ritorno della sede pontificia a Roma, con Gregorio XI nel 1377,
tutta l'Italia centrale (tranne Siena e Firenze) era tornata sotto il potere dello Stato
pontificio.
Ma il grande scisma porterà nuovo scompiglio. Lo Stato pontificio tornò ben presto
in condizioni di anarchia e in balìa dei capitani di ventura, uomini spregiudicati che
approfittarono della situazione non solo per depredare le poche ricchezze presenti,
ma anche per instaurare domini personali.
Solo alla fine del grande scisma e con il ritorno definitivo del papa a Roma lo stato
riuscì a ritrovare la sua unità e a dotarsi di un forte sistema centralizzato utilizzando
le valide modifiche amministrative e fiscali delle Costituzioni egidiane.A fortificare
questa amministrazione fu anche l'acuirsi della pratica del nepotismo (gli storici
parlano di questa epoca come quella del "grande nepotismo") e una
riorganizzazione del sistema fiscale basata sul riutilizzo di vecchie pratiche: la
vendita dei benefici ecclesiastici e la riscossione della decima.Venne inoltre
intensificata l'influenza nella politica internazionale tramite numerosi ambasciatori, i
nunzi apostolici, presso le corti dei sovrani d'Europa.
Grandi attività di ricostruzione e di restauro furono avviate nella Roma dei Papi,
sempre più simile alle corti principesche. I pontefici cercavano di dar lustro allo
stemma della propria casata, gareggiando con le altre corti in attività di
mecenatismo.Tra i nomi più importanti ricordiamo Niccolo V, Pio II, Sisto IV.
Inizia il XV secolo e l'Italia si trova politicamente frazionata. Nessuno tra i diversi
stati, grandi o piccoli, tantomeno tra le Signorie, era riuscito a creare una struttura
politicamente e militarmente solida e a porre fine al clima di costante conflittualità.
A Milano, il secondogenito di Gian Galeazzo, Filippo Maria Visconti, aveva
ripreso la politica espansionistica del padre. Ciò suscito l'allarme di Venezia, la
Serenissima, che riuscì a sconfiggere il Visconti in battaglia nella battaglia di
Maclodio (1427) grazie all'aiuto di un capitano di ventura, il Carmagnola
(Francesco da Bussone). Venezia si confermò la più grande potenza territoriale
dell'Italia settentrionale.
Altri problemi sorsero nel regno di Napoli. Una crisi dinastica interessò il regno alla
morte dell'ultimo esponente degli angioini, la regina Giovanna II. Tra i contendenti
c'era Alfonso V d'Aragona, il Magnanimo, che regnava in Sicilia. Grazie all'aiuto di
Francesco Sforza, un capitano di Ventura che era passato al servizio del duca di
Milano e ne aveva sposato la figlia, riuscì ad ottenere l'appoggio di Filippo Maria
Visconti e venne riconosciuto re di Napoli con il nome di Alfonso I. Alla sua morte i
territori vennero ancora divisi: le isole (Sicilia e Sardegna) andarono al fratello
Giovanni I, re d'Aragona, mentre Napoli fu governata dal figlio legittimo di Alfonso,
Ferrante I.
E' ancora Milano ad interessare la scena politica: morto Filippo Maria ed estinta la
casata dei Visconti, per un breve periodo fu instaurato un regime repubblicano. Si
manifestò subito la sua debolezza e dovette anche affrontare le incursioni degli
stati vicini e gli attacchi di Venezia. La popolazione chiese aiuto al genero di Filippo
Maria, Francesco Sforza, che si proclamò Signore di Milano, eliminando la
"repubblica ambrosiana".
Si crearono nuove alleanze attorno a Venezia (l'imperatore Federico III d'Asburgo e
Alfonso I di Napoli), e Milano (Cosimo de' Medici) nel loro incessante conflitto. La
guerra fu interrotta nel1453 al sopraggiungere della notizia della caduta dell'Impero
Bizantino sotto le incursioni di Maometto II. Venezia aveva interessi molto forti da
difendere nel Mediterraneo e si giunse così a chiudere la guerra con Milano con la
Pace di Lodi nel 1454. Tutti gli stati coinvolti si impegnarono a mantenere
inalterato l'equilibrio delle forze ed a sostituire,per eventuali controversie, l'uso delle
armi con quello della diplomazia.
Per far fronte a nuove minacce, tra le quali la più grave era rappresentata dalle
mire espansionistiche della Francia che era uscita rafforzata dalla guerra dei
cent'anni, nel 1455 nasce la Lega italica, che vede uniti Milano Venezia, Firenze,
lo Stato Pontificio, il regno di Napoli e vari staterelli confinanti sotto il patrocinio di
Papa Niccolò V. Le compagnie di ventura furono rimpiazzate da un esercito
regolare; tuttavia gli equilibri erano ancora fragili e la debolezza del sistema verrà
fuori quando nel 1494 il re francese, Carlo VIII, deciderà di invadere l'Italia.
La politica della bilancia
La pace di Lodi, del 1454, concesse alle terre italiane un periodo di relativa stabilità
e serenità che permise una stagione di particolare sviluppo artistico, culturale,
economico.Non mancarono ombre e fattori di debolezza: non si era in grado di
costruire strutture politiche e impianti militari che consentissero di mirare ad obiettivi
di ampio respiro; ci si limitava a mantenere l'equilibrio, fragile tra l'altro. Ma nel
1464 e 1466 i principali artefici della politica dell'equilibrio, Cosimo de' Medici e
Francesco Sforza, morirono.A Firenze il potere andò al giovane nipote di Cosimo,
Lorenzo, che insieme al fratello Giuliano, successe al padre, Pietro il Gottoso. Fu
lui ad essere definito l'ago della bilancia, per l'abilità diplomatica che lo
contraddistinse. Fu in grado di tessere relazioni economiche e familiari con lo Stato
pontificio e con Milano. Sposando Clarice Orsini diede alla sua dinastia un carattere
nobiliare. Per il suo amore per l'arte e la cultura, per la sua intensa attività
mecenatistica fu definito dai suoi concittadini il "Magnifico". Nel 1478 il giorno di
Pasqua fu oggetto di una congiura architettata dalla famiglia dei Pazzi ed
appoggiata da Papa Sisto IV. Riuscì a salvarsi mentre il fratello Giuliano venne
ucciso. La popolazione insorse contro i congiurati sterminandoli.Lorenzo entrò in
guerra contro lo Stato pontificio e fu appoggiato da Milano e Venezia. Sisto IV fu
inizialmente appoggiato da Siena e dal Regno di Napoli, Ferrante d'Aragona.
Quest'ultimo, grazie all'abilità diplomatica di Lorenzo, decise di abbandonare il
Papa che dopo solo due anni si vide costretto a firmare la pace (1480).
Altri focolai di guerra si svilupparono a Ferrara, su cui aveva puntato Venezia, e
Napoli, dove si era tentata una congiura contro il re Ferrante. Anche qui fu decisivo
l'intervento diplomatico e militare di Lorenzo de' Medici.
Morto Lorenzo l'equilibrio si infranse definitivamente.Prima manifestazione fu la
crisi dinastica di Milano: morto Gian Galeazzo II, il re di Napoli, Ferrante d'Aragona
chiedeva il riconoscimento degli eredi legittimi contro l'usurpatore, Ludovico
Sforza, detto il Moro. Il conflitto sembrava inevitabile e Ludovico chiese aiuto a
Carlo VIII, re di Francia.
Le guerre d'Italia.
L'alleanza di Ludovico il Moro con Carlo VIII ebbe conseguenze negative per la penisola italiana. Da questo momento infatti inizierà una serie di guerre che vedrà combattere due delle maggiori potenze europee, la Spagna e la Francia, sul suolo italiano e che per questo verranno chiamate guerre d'Italia.Nel 1494, Carlo VIII decide di scendere in Italia alla guida di un esercito impressionante. Era sua
intenzione rivendicare i diritti sui territori della dinastia angioina ed in particolare su Napoli.Entrò trionfalmente a Milano accolto dal duca Ludovico il Moro. Lasciata Milano cominciò una vera e propria invasione. Si diresse inizialmente su Firenze dove Piero de' Medici, terrorizzato, aprì le porte senza opporre alcuna resistenza. La città fu costretta a pagare duecentomila fiorini e a concedere ai francesi i porti toscani.La politica arrendevole dei Medici causò, dopo la partenza del re francese, un'insurrezione popolare e l'istituzione della Repubblica fiorentina, con a capo Girolamo Savonarola.Le intenzioni riformatrici di questo frate predicatore, di carattere molto radicale, gli attirarono l'inimicizia della borghesia, degli aristocratici e del Papa Alessandro VI Borgia, oggetto di molte sue invettive.Arrestato e
processato come eretico fu impiccato ed il suo corpo bruciato in Piazza della Signoria. L a Repubblica continuerà a sussistere fino al 1512, anno in cui il potere tornerà ai Medici. Accolto anche a Roma, da Papa Alessandro VI, il re di Francia continuò la sua discesa verso Napoli, che raggiunse nel febbraio del 1495 e conquistò nell'arco di tredici giorni.Il suo successo destò forti preoccupazioni in numerosi governanti (e non solo italiani) che decisero di allearsi in funzione antifrancese. Nacque dunque una lega che vide insieme Venezia, Milano, lo Stato della Chiesa, l'imperatore Massimiliano d'Asburgo e il re di Spagna Ferdinando il Cattolico. Carlo VIII decise
di rientrare in fretta in Francia ma dovette comunque affrontare le truppe della lega a Fornovo nel luglio del 1495 e riuscì a vincere a stento. Nulla di fatto, dunque, alla fine della sua calata in Italia, ma ancora una volta venne evidenziata la precarietà delle strutture politiche dei vari stati presenti sulla penisola. Il suo successore, Luigi XII, vantando legami di parentela con i Visconti, pretese anche dei diritti su Milano, oltre che su Napoli. Stretta una serie di alleanze con gli stati tradizionalmente ostili a Milano o che potevano trarre vantaggi, come Venezia, la Svizzera, il Papa Alessandro VI Borgia e suo figlio Cesare Borgia, conquistò facilmente la città ambrosiana nel 1500.Prima di proseguire per Napoli cercò anche qui una soluzione diplomatica: con il trattato di Granada, stipulato con Ferdinando d'Aragona, venne decisa la spartizione del Regno di Napoli. La Francia avrebbe avuto la Campania e l'Abruzzo, mentre la Spagna avrebbe regnato sulla Calabria e la Puglia.Ma il nuovo re di Napoli, Federico III, avendo scoperto questo complotto decise di abdicare a favore del re di Francia in cambio del ducato d'Angiò. Allora l'alleanza tra Luigi XII e Ferdinando d'Aragona venne meno e i due si affrontarono duramente sul suolo italiano. La Spagna ebbe la vittoria e ottenne il regno di Napoli. I francesi rimasero a Milano.Ma proprio per Milano il dramma non era ancora finito. Nel 1503 viene eletto Papa Giulio II della Rovere, acerrimo nemico dei Borgia.Tre i suoi principali obiettivi (raggiunti): attaccare i possedimenti di Cesare Borgia per riportarli allo Stato pontificio, cui
erano stati sottratti. Venezia, che aveva esteso i suoi domini nella Romagna ed in altre città del nord: con la creazione di una coalizione antiveneziana (re di Napoli, Imperatore, re di Francia) chiamata lega di Cambrai, il pontefice sconfisse la Serenissima ad Agnadello nel 1509, obbligandola a rinunciare alle terre conquistate. Milano: preoccupato per l'accresciuto potere del re di Francia, Giulio II diede vita
alla Lega Santa (Cantoni svizzeri, Venezia, Spagna, Inghilterra) che nel 1513 scacciò i francesi da Milano riportandovi gli Sforza.
I francesi tuttavia non si rassegnarono e con il nuovo sovrano, Francesco I, attaccarono nuovamente il ducato e i suoi alleati, gli svizzeri.La vittoria francese a Marignano nel 1515 fu travolgente ed anche gli svizzeri che avevano perso approfittarono della situazione per sottrarre al ducato di Milano i territori del canton Ticino.Il trattato di Noyon, sancì il dominio francese su Milano.
Le premesse e gli schieramenti
Quando è chiaro che il giovane e bellicoso sultano Maometto II (1432-1481), salito al trono da due anni, si prepara a sferrare l’attacco (dopo la fulminea edificazione di una grande fortezza sul litorale europeo, Rumeli Hissar, è fra l’altro riuscito a chiudere definitivamente il Bosforo), Costantino XI (1405-1453) gioca anzitutto, per l’ennesima e ultima volta, l’unica carta che possa richiamare l’interesse e dunque l’aiuto militare dell’Occidente per la sopravvivenza dello Stato bizantino:
nel 1452 fa annunciare a Costantinopoli l’unione delle Chiese, e il cardinale Isidoro di Kiev (1380 ca. - 1463), giunto con 200 balestrieri e archibugieri, celebra la messa secondo il rito romano a Santa Sofia.
Nell’aprile 1453 Maometto II avanza con circa 160 mila uomini, che trovano ad attenderli, dentro le mura della città – che Giovanni VIII (1394-1448) e Costantino XI hanno cercato per quanto possibile di restaurare –, non più di 7 mila difensori, inclusi Veneziani, Catalani e Genovesi, tra i quali spiccano il forte contingente di
Giovanni Giustiniani Longo (? - 1453), complesso personaggio su cui la moderna storiografia deve ancora emettere la propria sentenza, in ogni caso certamente e realisticamente motivato alla difesa a oltranza della città, e un drappello di Turchi alleati dei Bizantini, sotto il comando dell’esule principe Orchan. Non facile da decrittare per gli storici neppure l’ambiguo comportamento delle autorità genovesi di Galata, il munito insediamento genovese al di là del Corno d’Oro, che per tutta la durata dell’assedio mantengono una formale neutralità ma di fatto sostengono uno spericolato doppio gioco in cui le intese coi Turchi
e coi Bizantini si combinano inestricabilmente. Al di là della superiorità numerica, e lasciando da parte la virtuosistica realpolitik dei Genovesi, la vera forza di Maometto II sta nella schiacciante superiorità tecnologica. Sfruttando i servigi di ingegneri occidentali, tra cui l’ungherese (o scandinavo) Urban (? - 1453), si è dotato anzitutto di un notevole numero di bocche da fuoco, fra cui tre cannoni di dimensioni gigantesche (il più grande ha un diametro di oltre 80 cm). I difensori sono invece provvisti solo di armi da fuoco leggere, poiché l’artiglieria pesante non può essere collocata sulle antiche mura teodosiane, che verrebbero danneggiate dalle vibrazioni.
L’assedio
Dal 12 al 18 aprile i Turchi bombardano senza tregua il settore centrale delle mura di terra, e la notte del 18 sferrano il primo attacco vero e proprio. Il morale di tutti i difensori è alto (si dà per certo l’intervento di una flotta di soccorso veneziana) e le loro speranze sono confortate dall’arrivo, il 20 aprile, di quattro navi cariche di armati e vettovaglie, che dopo una battaglia di tre ore riescono a non essere catturate dalla flotta turca e a riparare nel Corno d’oro, sbarrato da un’immensa catena che fino ad allora ne ha tenuti fuori i Turchi. Non durerà tuttavia per molto: il 22 aprile una settantina di imbarcazioni ottomane, trainate per tre miglia su rulli ingrassati, sarà calata nel Corno d’oro dalla parte delle colline di Galata. Né le mura marittime né le Blacherne sono più sicure, e questo costringe i difensori a dividere ulteriormente le proprie forze. Per liberare il Corno d’oro un capitano veneziano, Jacopo Coco, concepisce l’audace piano di spingere nottetempo alcune imbarcazioni incendiarie (brulotti) nel mezzo della flotta turca. Ma a causa delle frizioni tra Veneziani e Genovesi dal momento del concepimento del piano a quello della sua esecuzione passa troppo tempo: la notte del 28 aprile i Turchi, probabilmente avvisati da spie di Galata, si fanno trovare pronti e il tentativo finisce tragicamente.
Ai primi di maggio i viveri nella città cominciano a scarseggiare. Secondo alcune fonti Maometto II avanza una proposta pro forma agli assediati (si sarebbe ritirato in cambio di 100 mila iperperi d’oro), che prevedibilmente viene respinta. Cominciando a incrinarsi la fiducia dei difensori nell’arrivo della flotta veneziana – che suscita forte inquietudine nello stato maggiore turco, specie nella sua
componente più moderata capeggiata da Halil Pasha (? - 1453) – viene inviato segretamente un gruppo veneziano “cammuffato alla turchesca” oltre i Dardanelli per avere notizie certe. Non verrà trovata traccia della flotta capitanata da Jacopo Loredan, che in quel momento non è ancora partita e che in seguito resterà ferma a Negroponte, bloccata ufficialmente da una bonaccia, in realtà dagli ordini del Senato veneziano. Frattanto, alle quattro di mattina del 7 maggio ha inizio il secondo grande attacco alle mura, che, nonostante la disparità di forze, viene brillantemente respinto. Nei giorni successivi prosegue un intenso bombardamento (la menzione del frastuono continuo e allucinante ricorre spesso nei resoconti dei testimoni dell’assedio),
ma anche l’attacco sferrato alla mezzanotte del 12 maggio finisce per fallire. Visti gli scarsi risultati ottenuti dai cannoneggiamenti e dagli assalti di massa, Maometto decide di ricorrere alla nuova tattica concepita dai suoi consulenti. A partire dal 15 maggio i minatori serbi aggregati all’esercito del sultano sono impiegati per scavare “mine” (sarebbero state sette in tutto), gallerie che corrono sotto le mura. I difensori, sotto la guida dello specialista tedesco (o anglosassone), Giovanni Grant, portato con sé da Giustiniani Longo (forse informato fin dall’inizio dall’intelligence genovese sui piani del sultano), rispondono con successo scavando contromine e distruggendo sistematicamente quelle nemiche. Sempre in questa fase i Turchi ricorrono ad altre innovazioni tattiche. Viene per
esempio utilizzata un’altissima torre d’assedio semovente, che una sortita notturna bizantina fa però esplodere, e le due rive del Corno d’oro sono congiunte con un ponte galleggiante per facilitare gli spostamenti delle truppe e fornire nuove postazioni all’artiglieria. Gli assediati, provati ma fino ad allora motivatissimi, devono fare i conti anche con una serie di omina negativi. Il 22 maggio un’eclissi parziale di luna viene vista dagli attaccanti come un presagio favorevole. Inoltre, un’antica profezia diceva che la città sarebbe caduta nella fase di luna calante – e tale la luna sarebbe stata a partire dal 24. Il 25 si decide, come già molte volte in passato in occasioni analoghe, di celebrare un grande rito per la Madre di Dio, e viene organizzata una solenne processione della veneratissima icona dell’Odighitria, conservata a San Salvatore in Chora, non lontano dalle mura. Ma nel mezzo della processione l’icona cade dalle mani dei suoi portatori, scivola nel fango da cui sono invase le strade in quel maggio insolitamente piovoso e si riesce a risollevarla solo con estremo sforzo. Lo scoppio di un violentissimo temporale provoca la completa dispersione dei partecipanti all’evento. Il giorno dopo la città si sveglia avvolta da una fittissima nebbia, e la sera alcune strane luci fluttuano sulla cupola di Santa Sofia. Non si tratta di semplice suggestione: nella primavera del 1453, come è stato recentemente dimostrato, l’atmosfera terrestre è satura delle polveri vulcaniche provenienti dall’esplosione dell’isola di Kuwae, nel Pacifico, ed è questo a causare non solo un brusco calo della temperatura a livello mondiale, ma anche gli effetti di luce, simili per certi versi ai fuochi di Sant’Elmo, visti sopra Santa Sofia. La notte stessa si verificano alcune defezioni tra gli assediati, specie tra i Veneziani.
L’impero è nato il 17 gennaio 395 ed è caduto il 29 maggio 1453.
Per quasi undici secoli, esattamente 1058 anni, adempì al compito di difendere e preservare il patrimonio culturale del mondo antico e del Mediterraneo dai ripetuti attacchi barbarici, provvedendo anche ad arricchire cotanto patrimonio genetico e a conservarlo e trasmetterlo alle generazioni successive. Un lasso di tempo enorme, che si fa l’errore di considerare nel suo insieme, in una lontananza così grande ed in un’unitarietà così appiattita, da togliere la necessaria prospettiva al suo svolgersi e da farlo sembrare molto più breve di quanto non sia realmente stato. E’ lo stesso errore che si commette, come visto, con il Medio Evo, i 1016 anni intercorsi dalla caduta dell’Impero romano (agosto 476) alla scoperta dell’America e la cacciata dei Mori dalla Spagna (ottobre 1492). Due periodi entrambi più lunghi di un millennio, quasi interamente sovrapponibili, durante i quali sono sorti i nuovi Stati moderni, si sono formate nuove Nazioni, sono nate le città nuove ed i Comuni, sono fiorite l’architettura e la pittura, si sono formate le lingue moderne, si sono spostate, migrando, intere popolazioni da una parte all’altra del nostro continente euro-mediterraneo, si sono combattute guerre lunghissime, si è consolidata la religione che aveva minato l’autorità romana, organizzandosi anche come istituzione e radicandosi sul territorio, una nuova è nata dopo di lei, con un’attrattiva ancora più grande. Il tutto in un intervallo di tempo superiore al doppio di quello intercorrente tra la scoperta dell’America ed i giorni nostri!
L’attacco finale
Il 28 maggio, alla vigilia dell’attacco finale, Maometto II e Costantino XI arringano i propri uomini. Il basileus, fisicamente stremato ma deciso a capitanare la difesa delle mura nonostante la concreta e già preliminarmente contemplata possibilità di organizzare la resistenza antiturca dalla seconda capitale imperiale, Mistrà,
nel Peloponneso, e le pressioni dei suoi consiglieri a lasciare la città, partecipa anche alla messa che cattolici e ortodossi celebrano insieme a Santa Sofia. L’assalto finale inizia alle tre del mattino del 29 maggio. Due ondate di assalitori, la prima di irregolari (bashi-bazuk) muniti però di un numero impressionante di
scale d’assedio, la seconda di ben disciplinati regolari anatolici, sono respinte, e anche la terza e ultima, di giannizzeri, le truppe d’élite del sultano, incontra gravissime difficoltà. A cambiare in extremis le sorti della battaglia è l’inesplicata defezione di Giovanni Giustiniani Longo, che, con ogni probabilità ferito
anche se non è chiaro quanto gravemente, lascia il proprio posto per raggiungere
le navi e farsi medicare. Cosa ancora più inaudita, il suo stato maggiore lo segue. L’apertura, per consentirgli il passaggio, di una delle porte che i difensori hanno
chiuso a chiave dietro di sé fa spargere la voce che le mura di terra siano state violate (cosa che in realtà non è mai avvenuta). Anche in altri settori cruciali si creano
così una confusione e un panico che consentono ad alcuni gruppi di giannizzeri di
forzare lo sbarramento difensivo.
Costantino XI, dopo essersi strappato di dosso, secondo alcune fonti, gli emblemi del proprio rango per non farsi riconoscere, cade eroicamente nella mischia,
probabilmente vicino alla porta di San Romano. Degli altri difensori, alcuni riescono a fuggire su poche navi genovesi e veneziane, altri sono fatti prigionieri, pochi
(tra cui, si dice, il principe Orchan) preferiscono suicidarsi. A mezzogiorno, in mezzo al saccheggio e alla desolazione, Maometto II fa il suo ingresso in città, entra a
Santa Sofia e invita i credenti alla preghiera pomeridiana.
Il 12 ottobre 1492, dopo sessantanove giorni di navigazione, Cristoforo Colombo gettava l’ancora della sua
caravella, la Santa Maria, presso l’isola Guanahani (futura isola di San Salvador). Fu così che, nel tentativo di
raggiungere via mare il Catai ed il Cipango (le attuali Cina e Giappone) per una nuova e inesplorata via,
l’ignaro navigatore fece dono alla Spagna e all’Europa del Nuovo Mondo. La scoperta dell’America infatti
avrebbe segnato l’irruzione nella storia di una nuova umanità (e anche di una nuova Cristianità), ponendo
l’Europa di fronte a uomini e culture diverse, di fronte al problema dell’«Altro»; si usciva insomma dal
Medioevo per approdare nei secoli della modernità.
Cristoforo Colombo era nato a Genova nel 1451. Eccellente navigatore, si era stabilito in Portogallo,
appassionandosi alle esplorazioni e studiando un modo più rapido per raggiungere via mare il Cipango e
altre terre sconosciute. Intorno al 1484, aveva proposto il suo progetto al re di Portogallo; al rifiuto del
sovrano, Colombo si era rivolto ai monarchi di Castiglia e Aragona. Il primo rifiuto dei re spagnoli, nel 1487,
non scoraggiò Colombo, che pochi anni dopo, nel pieno fervore della guerra di riconquista cristiana della
Spagna, riuscì ad accordarsi con i reali per il finanziamento dell’impresa. Era la primavera del 1492. Il 3
agosto di quello stesso anno Colombo salpava verso Occidente da Palos con tre imbarcazioni: la «Niña», la
«Pinta» e la «Santa Maria». Dopo una sosta alle Canarie, l’8 settembre la piccola flotta iniziava la traversata
dell’Oceano Atlantico.
Dopo il rientro di Colombo in Europa, avvenuto nel marzo 1493, papa Alessandro VI (lo spagnolo Rodrigo de
Borja), su richiesta dei sovrani spagnoli, timorosi delle rivendicazioni territoriali avanzate dal re Giovanni II
di Portogallo, emanò una serie di documenti, tra i quali il più importante è la bolla Inter cetera del 4 maggio
1493. Il documento è contenuto nel Registro Vaticano 777 dell’Archivio Segreto Vaticano. La Inter cetera (di
cui esistono due redazioni) venne retrodatata, nella sua versione definitiva al 4 maggio, anche se composta,
spedita e registrata solo alla fine del giugno 1493. Con quel documento, definito anche «bolla di
partizione», il papa – in virtù dell’autorità apostolica sulle terre occidentali dell’ex Impero Romano,
esercitata in forza delle prerogative attribuite ai papi dalla falsa donazione di Costantino – concedeva ai
sovrani spagnoli il possesso di tutte le isole e le terre scoperte e di quelle che sarebbero state scoperte in
futuro, a ovest di una linea di confine ideale Polo Nord/Polo Sud, idealmente tracciata a circa cento leghe
dalle isole Azzorre e dalle isole di Capo Verde.
Con questo atto il pontefice delimitava il dominio marittimo e coloniale di Spagna e Portogallo. Il papa
chiedeva poi ai sovrani di provvedere al più presto all’invio di missionari cattolici che operassero per
convertire alla vera fede di Cristo le popolazioni indigene: bolla di partizione del mondo e bolla missionaria
dunque, che tante ripercussioni avrebbe avuto negli anni a venire.
Nel documento papale s'incontra fra l'altro l'esplicito riferimento alla missione svolta da Cristoforo
Colombo (chiamato nella bolla Cristoforus Colon), "uomo particolarmente degno e assai raccomandabile,
nonché capace di compiere una così grande impresa", incaricato dai sovrani spagnoli "di cercare non senza
fatiche e pericoli certe isole lontanissime e terre mai scoperte prima".
Il Trattato di Tordesillas del 1494 tra i re di Portogallo e di Spagna avrebbe spostato i confini delle rispettive
zone di influenza a 370 miglia dalla linea ideale tracciata dal papa.