Nel 1928 il medico inglese Frederick Griffith stava studiando il batterio Streptococcus pneumoniae o pneumococco, uno degli agenti patogeni della polmonite umana: lo scopo di Griffith era sviluppare un vaccino contro questa malattia che al tempo, prima della scoperta degli antibiotici, mieteva molte vittime. Griffith stava lavorando con due diversi ceppi di pneumococco
Il ceppo S (smooth, in inglese «liscio») era costituito da cellule che producevano colonie a superficie liscia. Essendo ricoperte da una capsula polisaccaridica, queste cellule erano protette dagli attacchi del sistema immunitario dell’ospite. Se iniettate in topi di laboratorio, esse si riproducevano e provocavano la polmonite (il ceppo quindi era virulento).
Il ceppo R (rough, in inglese «ruvido») era costituito da cellule che producevano colonie con superficie irregolare. Queste cellule erano prive di una capsula protettiva e non erano virulente.
La stretta relazione tra gene e proteina è stata dimostrata negli anni '40 dagli scienziati americani G. Beadle ed E. Tatum, con una serie di esperimenti su un fungo ascomicete (Neurospora crassa), in grado di crescere su un terreno di coltura minimo (contenente solo sali minerali, saccarosio e la vitamina biotina). Partendo da questi precursori, il fungo sintetizza gli altri composti organici di cui necessita. Beadle e Tatum irradiarono alcuni campioni di Neurospora con raggi X, che produssero una mutazione nel loro patrimonio genetico. Gli scienziati osservarono che i funghi mutanti non erano più in grado di crescere sul terreno di coltura minimo, poiché avevano perso la capacità di far avvenire una reazione metabolica catalizzata da un determinato enzima: ne conclusero che la sintesi dell'enzima in questione doveva essere sotto il controllo del gene mutato.
Il riconoscimento del fattore di trasformazione ha costituito una tappa fondamentale nella storia della biologia, raggiunta con fatica da Oswald Avery e dai suoi collaboratori. Essi sottoposero i campioni contenenti il fattore di trasformazione dello pneumococco a vari di trattamenti per distruggere tipi diversi di molecole (proteine, acidi nucleici, carboidrati e lipidi) e controllarono se tali campioni trattati avevano conservato la capacità di trasformazione.
L’esito fu sempre lo stesso: se si distruggeva il DNA del campione, l’attività di trasformazione andava persa, ma ciò non avveniva quando si distruggevano le proteine, i carboidrati o i lipidi (▶figura 2). Come tappa finale Avery isolò del DNA praticamente puro da un campione che conteneva il fattore di trasformazione dello pneumococco e dimostrò che esso provocava la trasformazione batterica. Oggi sappiamo che durante la trasformazione avviene il trasferimento del gene preposto all’enzima che catalizza la sintesi della capsula polisaccaridica dello pneumococco.
Il lavoro di Avery e del suo gruppo ha rappresentato una pietra miliare nel percorso per stabilire che il materiale genetico delle cellule batteriche è il DNA. Tuttavia, quando fu pubblicato nel 1944 non fu accolto come meritava, e questo per due ragioni. La prima è che molti scienziati pensavano che il DNA fosse chimicamente troppo semplice per essere il materiale genetico, specialmente se confrontato con la complessità chimica delle proteine. La seconda, e forse più importante, ragione è che la genetica batterica costituiva un campo di studio nuovo: ancora non si era neppure del tutto certi che i batteri possedessero geni.
Nel 1952 i genetisti statunitensi Alfred Hershey e Martha Chase pubblicarono un lavoro che ebbe una risonanza immediata molto maggiore di quello di Avery. L’esperimento di Hershey e Chase, teso a stabilire se il materiale genetico fosse il DNA o le proteine, fu eseguito su un virus che infetta i batteri. Questo virus, detto batteriofago T2, è composto da poco più che un cuore di DNA impacchettato in un rivestimento proteico (▶figura 3), proprio i due materiali all’epoca maggiormente sospettati di essere il materiale genetico.
Watson e Crick si sforzarono di mettere insieme in un unico modello coerente tutto ciò che fino a quel momento era stato appurato circa la struttura del DNA. Possiamo riassumere così le informazioni di cui disponevano i due ricercatori:
I risultati della cristallografia (vedi ▶figura 5) mostravano che la molecola di DNA era a forma di elica (una spirale a sviluppo cilindrico).
I precedenti tentativi di costruire un modello in accordo con i dati fisici e chimici suggerivano che nella molecola ci fossero due catene polinucleotidiche affiancate che correvano in direzioni opposte, cioè erano antiparallele (▶figura 7B).
I risultati di Chargaff suggerivano che le basi azotate fossero legate tra loro in modo ben preciso.
L'esperimento di Matthew Meselson e Franklin Stahl del 1958 è stato fondamentale per determinare il meccanismo semiconservativo di replicazione del DNA.
All'epoca era già noto ed accettato il modello a doppia elica del DNA proposto da James Watson e Francis Crick. Questo modello prevedeva che le due eliche di DNA si appaiassero tra loro a formare una doppia elica mediante interazioni deboli (legami ad idrogeno, repulsione elettrostatica dei gruppi fosfato, interazione idrofobica delle basi azotate). Prevedeva inoltre che le due eliche interagissero a livello delle basi azotate, ed in particolare erano possibili solo gli appaiamenti complementari Adenina -- Timina e Citosina -- Guanina.
Watson e Crick proposero (in realtà in modo velato e senza portare alcuna dimostrazione) che, dato che gli appaiamenti possibili erano esclusivamente quelli appena citati, ognuna delle due eliche contenesse l'informazione necessaria a costruire l'elica complementare. Questo suggeriva un sistema semplice ed efficiente per replicare il materiale genetico: nel momento della replicazione le due eliche si sarebbero dovute separare ed ognuna di queste sarebbe servita da stampo per l'elica complementare.
In tal senso si parla di replicazione semiconservativa dal momento che nelle nuove doppie eliche uno dei due filamenti era presente nella doppia elica originale, l'altro è di nuova sintesi.
Il primo passo verso la decodificazione è stato compiuto nel 1961 dai biochimici Marshall W. Nirenberg e J. Heinrich Matthaei, quando capirono che come messaggero potevano usare un semplice polinucleotide artificiale invece che un mRNA naturale, ben più complesso; riuscirono quindi a identificare il polipeptide codificato da tale messaggero artificiale.
I due ricercatori prepararono un mRNA artificiale in cui tutte le basi erano costituite dall’uracile (un mRNA sintetico detto, appunto, poli U). Aggiungendo un poli U in una provetta contenente gli ingredienti necessari alla sintesi proteica, si formò una catena polipeptidica tutta composta da un solo tipo di amminoacido: la fenilalanina.
Dunque un poli U codificava la fenilalanina; di conseguenza, UUU era la parola in codice – il codone – per specificare la fenilalanina .
Sulla scia di questo successo, Nirenberg e Matthaei dimostrarono ben presto che CCC codifica la prolina e AAA codifica la lisina (poli G presentava qualche problema dal punto di vista chimico e inizialmente non fu preso in esame). UUU, CCC e AAA erano tre codoni fra i più facili; per venire a capo degli altri fu necessario modificare l’approccio sperimentale